De Benedetti: senza giornali non c'è democrazia
Desidero innanzitutto ringraziare Padre Gambetti e tutti gli amici del Sacro Convento di Assisi per avermi invitato a partecipare all’edizione 2017 del “Cortile di Francesco”. Sono lieto di essere qui per riflettere insieme sulle opportunità e sui rischi che i nostri giornali, i nostri gruppi editoriali, ma ancor più le nostre società democratiche, stanno affrontando.
Un paio di mesi fa a Torino, in occasione del 150° anniversario di fondazione de La Stampa sono stato invitato a dare il mio contributo alla conferenza internazionale 'The future of newspapers', evento che ha visto l'intervento di giornalisti, editori, dirigenti del mondo dei media, tra carta stampata e digitale, per rispondere alle domande chiave dell'industria oggi e ci siamo confrontati su questi temi: l'industria dei media, la fiducia dei lettori, il declino (ma non la morte) della carta stampate, le fake news, la sostenibilità del mercato, il giornalismo del futuro.
Quando La Stampa pubblicò il suo primo numero nel 1867, l’Italia come realtà politica e istituzionale aveva meno di sei anni. Eppure già nel 1848, quando Torino era ancora solo la capitale del Regno di Sardegna, lo Statuto Albertino aveva per primo affermato: “La stampa sarà libera”.
Sappiamo come quella norma sarà poi maltrattata nella prassi e infine radicalmente negata dal fascismo, ma da quel seme nasce l’articolo 21 della Costituzione della Repubblica italiana. La libertà di espressione dei cittadini e la libertà di stampa sono le fondamenta delle moderne società democratiche.
In questi anni è andata confermandosi la mia convinzione che una società democratica non possa fare a meno dell’informazione professionale. L’illusione di una totale disintermediazione, in politica come nel campo dell’informazione, mostra il limite di ogni ideologia millenaristica: la sparizione dei vecchi mediatori crea lo spazio per nuovi ri-mediatori che sfuggono alla verifica collettiva e surrogano i modi ma non le qualità di chi li ha preceduti.
Nel nostro campo abbiamo visto questo fenomeno ampliarsi con travolgente forza. I nuovi, potentissimi ri-mediatori delle relazioni personali e informative dell’umanità sono in breve diventati snodi ineludibili. Mi riferisco a Google, a Facebook, ad Apple e agli altri Over-The-Top (OTT): che, sia detto con chiarezza, io ammiro profondamente per quanto hanno immaginato e realizzato. Ma dei quali vedo potenzialità e rischi.
I rischi dovuti alle dimensioni degli OTT allertano per ragioni molteplici. Il New York Times ha sottolineato come gli investimenti di Google nell’Intelligenza Artificiale, dalla quale dipenderà il futuro sociale ed economico globale, “non sono bilanciati da nessuno, a cominciare da quelli dei settori pubblici”. Che è come dire che è tra Mountain View e Cupertino, non a Washington o Pechino, che si progetta cosa saremo tra dieci o vent'anni.
Le grandi piattaforme digitali sembrano peraltro essersi ultimamente rese conto che l’informazione prodotta professionalmente è una condizione essenziale per la sopravvivenza delle moderne democrazie.
Per quanto ci riguarda, noi editori ci siamo resi conto che non dà risultati andare alla guerra contro Google e soci, che pure usano i nostri contenuti senza retribuirci. Hanno mezzi e risorse per respingerci. Tant’è che siamo passati da una situazione di scontro a una di confronto e, in alcuni casi, di intesa basata sul riconoscimento di principi come quello del diritto d'autore. Chiediamo di poter fare il nostro mestiere.
Il discorso deve essere assai più ampio, non può essere solo una questione da risolvere con negoziati tra parti - peraltro con un’enorme differenza di potere.
Se siamo qui è perché non crediamo più di vivere una semplice fase evolutiva, ma sappiamo di essere parte di una rivoluzione dei rapporti umani e della produzione. E questa rivoluzione si traduce, per noi, nella scoperta di un fatto semplicissimo: non siamo più i soli a raccogliere, elaborare e fornire informazioni, a connettere persone e istituzioni, a lubrificare l’economia e i commerci con la pubblicità.
Gli editori, i giornalisti e gli altri professionisti che hanno fatto grande il nostro mondo sono oggi parte di un sistema più vasto. Un vero e proprio “ecosistema dell’informazione”, al quale appartengono associazioni, organizzazioni non-profit, imprese commerciali di altra natura, istituzioni pubbliche e private, singoli cittadini e - naturalmente - le piattaforme digitali, le infrastrutture che abilitano ma anche fortemente condizionano la libertà di espressione della società del Ventunesimo secolo.
Dobbiamo ridefinire qual è, in questo nuovo contesto, il ruolo degli imprenditori dell’informazione, di chi organizza risorse umane e tecniche per creare e distribuire prodotti professionali.
La domanda che mi pongo è semplice: come devono trasformarsi il giornalismo e l’editoria in un sistema culturale nel quale l’atto di “pubblicare” è inteso come il semplice click sul tasto “invio”?
La risposta può solo essere trovata nella creazione e nell’offerta di prodotti informativi non fungibili, non replicabili.
Tra le leggi che regolano l’universo digitale c’è quella del good enough: nell’abbondanza di contenuti e servizi l’utente spesso si accontenta di prodotti di qualità media, sufficiente per le necessità del momento. Basta guardare al fenomeno dei file musicali MP3, di qualità estremamente inferiore ad altri formati ma “buoni quanto basta” in un autobus, in auto e in cento altre condizioni di ascolto.
Questa legge vale anche per l’informazione digitalizzata.
E non parlo dell’informazione erronea o fuorviante delle fake news. Parlo dell’enorme quantità di informazioni prodotta per le più svariate ragioni che è “buona quanto basta”, con costo di accesso sostanzialmente pari a zero.
Non c’è modello di business che possa funzionare se il prodotto concorrente ha prezzo pari a zero. E’ evidente perciò che non possiamo pensare di restare sul mercato - in specie quello dell’attenzione e della rilevanza sociale - producendo anche noi informazioni fungibili, “buone quanto basta”. Dobbiamo concentrarci sulla informazione “che fa la differenza”, l’informazione che solo una struttura di eccezionale professionalità può fornire con continuità e peso istituzionale. Un’informazione ad alto, altissimo contenuto di qualità e di lavoro.
In definitiva, a distinguere l’informazione del giornalismo professionale dall’informazione non professionale è il metodo. Il cittadino deve sapere con certezza che ciò che trova in tutti i nostri canali di distribuzione è qualificato da un metodo fatto di verifiche, di trasparenza, di opinioni a confronto, di correzioni pubbliche.
In un mondo di informazione “buona quanto basta” a costo zero, gli editori devono essere in grado riconquistare la fiducia dei cittadini. E’ questo il valore del nostro lavoro. Tutto ciò che va nel senso dell’aumento della fiducia, va anche nel senso della sicurezza economica.
Se concordiamo poi sul fatto che il ruolo della stampa è ancora più essenziale quando alcuni valori fondanti della società sono messi in pericolo da estremismi e populismi, allora ha senso lanciare da Torino la proposta della convocazione degli Stati generali dell’Editoria d’Informazione, aperti a ogni individuo, azienda, gruppo o categoria che voglia dare il proprio contributo. E ripartire.
Ripartire dalla qualità, come detto, ma anche dai dati.
L’Economist ha pubblicato recentemente uno speciale che metteva in luce come nel mondo digitale i dati siano il vero nuovo mercato rilevante.
Non potrei essere più d’accordo. Tre anni fa, in occasione del congresso WAN-IFRA qui a Torino avevo chiesto alle autorità politiche e regolatorie di riconoscere che i vantaggi ingiusti e anticoncorrenziali dei quali godono i grandi player digitali “sono ora di forma nuova e devono dunque essere affrontati con concetti nuovi”.
Tra questi concetti avanzavo l’idea che l’antitrust potrebbe agire sul mercato dei dati vietando o limitando l’uso di quelli raccolti in una linea di business a beneficio di un’altra o al servizio dello stesso gruppo imprenditoriale.
L’Economist segue la stessa strada e propone che si cominci a immaginare la “condivisione” dei dati, o almeno di alcuni. Per esempio - aggiungo io - cominciando con quelli generati dalla interazione degli utenti con i contenuti degli editori che sono linkati, citati o fatti propri dalle piattaforme digitali.
Noi abbiamo già a disposizione i dati che si producono sulle nostre piattaforme dalla interazione degli utenti con i contenuti che pubblichiamo. Ma sono prodotti da nostri contenuti anche i dati che si generano su piattaforme di terzi, come Facebook. Mi piacerebbe che questo fosse riconosciuto.
In ogni caso i dati sono il centro delle attività e degli interessi di tutti i grandi attori mondiali dell’economia digitale – lo sono tanto che il 30 maggio l’Autorità Antitrust, l’Autorità per le Garanzie e nelle Comunicazioni e l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali hanno avviato un’indagine conoscitiva congiunta per individuare i problemi connessi all’uso dei Big Data e definire un quadro di regole che promuovano e tutelino la protezione dei dati personali, la concorrenza dei mercati dell’economia digitale, la tutela del consumatore e il pluralismo nell’ecosistema digitale. Noi parteciperemo attivamente a questa iniziativa, poiché i dati sono diventati il centro delle attività anche per gli editori d’informazione e per i giornalisti.
Amo appassionatamente il mestiere di editore, ma è evidente che a me e ai colleghi della mia generazione difettano a volte i riferimenti culturali per affrontare i problemi che abbiamo di fronte e che ridefiniscono il nostro campo ben al di là della tradizionale industria verticalmente integrata quale era il settore dei giornali. Dobbiamo discutere, aprirci agli apporti di altre culture e competenze.
Cominciamo dall’Italia convocando gli Stati generali dell’Editoria d’Informazione, ai quali invitare tutti i portatori di interesse come i rappresentanti delle categorie della filiera (editori, giornalisti, poligrafici, ecc.), aprendosi ai contributi di altri, OTT compresi. L’Italia dovrebbe essere solo l’inizio: mi piacerebbe molto che questa si trasformasse in una iniziativa che coinvolga l’intera Europa.
Non vogliamo aiuti di Stato né sovvenzioni, vogliamo cercare il modo per rimanere remunerativi perché se muore l’editoria d’informazione, non muore solo un settore industriale: muore una funzione essenziale dei sistemi democratici.
Massimo Giannini sul giornalismo di domani: "Il futuro sarà profondo, non esteso"
“Il vero messaggio è che noi giornalisti non abbiamo più messaggi da dare. In questa società frammentata i media non mettono più ordine al caos. Oggi l’opinione pubblica non si fida più di nessuno”.
Nella Sala Stampa del Sacro Convento della Basilica di San Francesco, il giornalista di Repubblica ed ex- conduttore Rai Massimo Giannini si è interrogato sul futuro di un settore, quello giornalistico, in cui non la digitalizzazione ha causato la scomparsa dei punti fissi. “Quello che viviamo è un universo di complessità inesplicabili: terrorismo, globalizzazione e disuguaglianze crescenti. Oggi non riusciamo a trovare il senso perché siamo alluvionati dalle informazioni” – ha detto Giannini.
La sfida per chi oggi vuole fare questo mestiere è allora quella di “essere profondi, non estesi. Il futuro della carta stampata non sarà più quello di dare la notizia, ma quello di spiegare, approfondire il retroscena”. Giannini ha concluso dicendo che la nostra libertà si specchia nella nostra conoscenza, “per questo dobbiamo leggere, faticare e studiare”.
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